Continuando Calvino, e oltre

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Un pensiero etico serioso: è di José Saramago: “Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere”. C’era una volta uno scrittore di Sanremo, ma nato a Santiago di Cuba, si chiamava Italo Calvino, famoso per i suoi romanzi e racconti. Ne aveva pronto uno nuovo, Il bianco veliero, ma non si decideva a pubblicarlo perché gli piacevano le forme brevi, apologhi e “raccontini” come li chiamava. E infatti così fece. Pubblicò i raccontini separati, che ora possiamo leggere nel volume Racconti del 1958. Uno è quello di Giovannino e Serenella.

Giovannino e Serenella (continuando I.Calvino – tre), diAnnamaria Evangelista 
Giovannino era proprio contento di avere Serenella amica, una compagna di giochi allegra e che non piangeva mai. E poi andavano molto d’accordo.
Il giorno dopo la “visita” alla villa, i due amici al solito si trovarono per giocare. Giovannino arrivò col pallone e, appena vide Serenella, glielo lanciò. Continuarono a passarselo, camminando verso lo slargo dietro la chiesa. Ad un tratto Serenella si fermò: «Giovannino, perché quel ragazzo se ne stava chiuso in quella stanza in ombra nella villa? È strano col parco tutt’intorno, vero?»
Loro godevano dell’estate, giocavano liberi al mare, nel parco,… e lui, in quella ricca villa con piscina, giardino pieno di piante e aiuole fiorite, chiuso nella stanza con la persiana che impediva che la luce del sole lo “rallegrasse”.
«Non lo so», rispose Giovannino, alzando le spalle e si mise a palleggiare sul selciato, come assente, poi alzò la testa: «Andiamo a vedere come sta?»
A Serenella si illuminarono gli occhi: «Andiamo!”

 Il pino di Natale, di Giorgio Zanellato
Il Natale di tanti anni or sono arrivò con una novità. A sostituire il classico presepio si era insediato un bel pino di circa due metri con mille addobbi e luci a intermittenza. Piaceva a me e alla mia famiglia regalandoci davvero il senso della natività con quella luce azzurra che ogni dieci secondi si riaccendeva per ricordarci l’imminente sacro evento. L’Albero durò oltre il Natale e fu attorniato di pacchi e balocchi che, si diceva, essere stati portati dalla Befana. Ma la lunga permanenza dentro casa l’aveva minato nella sua robustezza mentre gli aghi sul pavimento ne dichiaravano la sofferenza. La decisione di ridargli vigore si risolse nel trovargli un veloce posto in giardino, dove fu piantato con tante speranze. Il pino raddrizzò la punta, rinverdì gli aghi e si prese cura di sé, fare la bella vita all’aperto. Però, questa bella vita si dimostrò problematica, per noi. Ormai sicuro del suo vigore, il pino decise di  eliminare gli ostacoli: ruppe con le sue radici il tubo dell’acquedotto, provocò una crepa sul muretto di cinta e sollevò perfino il marciapiedi della strada. Non pago, si appropriò di tutto lo spazio circostante, ci scaricò una miriade di aghi secchi e impedì perfino che un solo filo d’erba potesse crescere nello spazio usurpato. A quarantasette anni di vita, adesso, il pino si permette di tramutare la sua sicurezza in tracotanza. Se passo per il suo territorio, non disdegna di farmi assaggiare le punte dei suoi numerosi aghi. Sa che nessuno lo può più contrastare e la sua eventuale eliminazione comporterebbe una spesa esagerata per i suoi persecutori. Così la nostra resa è incondizionata e siamo passati al vecchio presepio, convintamente.

Terre di Polesine, di Graziella Miotto
L’occasione fu la celebrazione del settantesimo anniversario della tragica alluvione del ‘51 nel Polesine. Lei, polesana, nata e cresciuta in quei luoghi fino all’età di venti anni, non si perse un articolo, un servizio, non tralasciò di raccogliere e annotare religiosamente titolo, ogni autore dei libri che via via erano citati a testimonianza della cronaca dei fatti, quasi volesse colmare tutti quegli anni di separazione. In realtà era stato un allontanamento più ideale che reale. Ci tornava ogni domenica a visitare l’anziana madre, altre volte si spingeva sul Delta per svago, incuriosita dalla crescente popolarità di alcune vocazioni specifiche del territorio. Oltre a questo, non aveva coltivato nessun altro rapporto, neppure le amicizie giovanili, per quanto si potesse dire che ognuna si era rarefatta per seguire i sentieri della vita. Stupita del suo ravvivato interesse, si trovò a pensare che allora è proprio vero, le radici riaffiorano sempre, specialmente quando ci si può concedere un’indulgenza, pensare a se stessi.

Dialogo tra Rosmarino e Salvia, di Carla Gilari
Nel fazzoletto di terra dietro casa, si trovarono a dialogare la salvia e il piccolo arbusto di rosmarino. Era da tempo, mesi e mesi, che, casualmente vicini, si guardavano quasi in cagnesco. Entrambi cercavano l’esclusiva attenzione di chi, di tanto in tanto, raccoglieva un rametto di rosmarino o qualche foglia di salvia. Ed entrambi cercavano qualcuno per socializzare. Avevano, talvolta l’una, talvolta l’altro, escogitato stratagemmi per far sì che colei o colui, che veniva a trovarsi attorno, si soffermasse proprio lì, con lei o con lui: mezzucci per autocompiacersi, per vanagloria, per potersi pavoneggiare, soprattutto col vicino, che si pensava non essere alla propria altezza. Visto che nessun umano badava più a loro, dopo essersene ben servito, fu la salvia a rompere gli indugi e, timidamente e timorosamente, si rivolse al vicino. Che pure già da un po’ pensava la stessa cosa, ma la cui ritrosia, e pure vanità, avevano finora bloccato. -Ehilà, tu, come ti trovi qui? Non soffri di solitudine? -Certo, rispose il rosmarino. Vorrei almeno essere più prossimo al mare.

Agosto, di Maurizia Galuppo
Agosto. Calura soffocante. Nella penombra in cucina, sola, taglio la grossa anguria per farne pezzetti sbucciati, da mettere in frigo, dentro ad una vaschetta, pronti per le merende. Penso. Penso a te che mi hai insegnato ad iniziare tagliando due piccoli dischi di buccia, dalla parte del picciolo e dall’altra parte, senza spiegarmi perché. Perché mi volevi bene. E da allora quando lo faccio ti penso e sorrido.

Il giardino di lei, di Annamaria Evangelista
Non è molto grande il suo giardino, ma guai se le mancasse. È diviso in due parti dal vialetto di ingresso, dal cancello alla porta di casa. Quando è andata ad abitare in quella casa, in giardino c’erano molti alberi piuttosto alti, belli e frondosi: due pini e un abete; ai lati del fronte strada due allori dalla chioma ampia, in autunno piena di bacche nere che gli uccelli beccavano e, facendole cadere, sporcavano la pavimentazione di un viola quasi nero. Ora i pini e l’abete non ci sono più, erano ormai troppo alti, pericolosi in caso di vento forte; un anno, infatti, uno di essi è stato assicurato con una robusta catena ad un palo di ferro. Furono i primi alberi del giardino ad essere tagliati.